I dazi americani danneggiano alcune nostre esportazioni
Le lamentazioni, tuttavia, paiono eccessive.
L’imposizione di dazi doganali non è mai una buona notizia: essi sono sintomo di malessere e di lotte commerciali protezionistiche. Tuttavia, rendono felici i produttori nazionali quando i dazi sono all’entrata (vedi quelli sul riso a basso costo importato dall’Oriente), e, viceversa, infelici gli esportatori verso i Paesi che hanno deliberato il balzello. Un tempo erano un’arma comune nelle mani dei vari Stati, poi, col passare degli anni, con la globalizzazione, questo strumento ha perso molto di valore e i dazi o sono stati tolti o si sono molto affievoliti. A partire dallo scorso 18 ottobre, sono entrati in vigore pesanti incrementi dei dazi, dell’ordine del 25%, da parte degli Stati Uniti, a carico di alcuni prodotti agroalimentari provenienti dai Paesi della Comunità Europea, Italia compresa. Di tale minaccia, che purtroppo è diventata realtà, avevamo già parlato nel nostro Focus di luglio, e non ne siamo affatto felici, anche se Francia, Regno Unito, Germania e Spagna stanno peggio di noi. Da chiarire che questa imposizione richiesta dagli USA è stata approvata dal WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) quale punizione per aver concesso finanziamenti pubblici al consorzio Airbus, e ora siamo in attesa di vedere, entro la prossima estate, il verdetto del WTO in merito agli aiuti concessi alla statunitense Boeing, ma, per ora, paghiamo noi.
I principali prodotti colpiti sono il parmigiano reggiano, il grana padano, il provolone, il pecorino non da grattugia, la mozzarella fiordilatte (non la bufala), il gorgonzola, salami, mortadella, liquori e amari. Sono salvi i prosciutti, i vini (e non è poco, considerando le esportazioni di Prosecco e di tutto il comparto), l’olio d’oliva, la pasta. La notizia ha scatenato una enorme ondata di doglianze, paventando addirittura un “azzeramento o quasi” delle esportazioni, con “ripercussioni commerciali e sociali drammatiche”. C’è chi ha perfino minacciato manifestazioni popolari davanti agli insediamenti militari americani in Italia. Addirittura! Si prevedono incrementi dei prezzi di vendita al consumo anche del 50% e perdite dell’ordine di 500/700 milioni di euro per il nostro Paese. A tutto vantaggio dei prodotti locali americani, e dell’Italian sounding, cioè dei falsi alimentari che già danneggiano le nostre esportazioni, che però, guarda caso, aumentano ogni anno a doppia cifra. Come detto, questa imposizione è per noi nefasta, ma lo stracciarsi le vesti e gridare alla rovina sparando numeri e previsioni a caso (calo del 20% dei consumi) pare eccessivo, a meno che tutto ciò serva per avere contributi e aiuti statali. Il consumo, negli USA, di questi prodotti di nicchia è tutto sommato anelastico, per cui un aumento di un trancio di formaggio da 200 grammi, da 8 a 9,60 dollari, non comporterà grandi contrazioni. A livello di bilancia commerciale nazionale, non è poi detto che alcuni comparti quali i vini (colpiti quelli francesi) e gli oli (colpiti quelli spagnoli), non ne traggano alla fine vantaggio.
I nostri esportatori, si spera, non vorranno scaricare, come al solito, tutto sui consumatori finali: visti i prezzi in Italia e soprattutto quelli di cessione ai distributori esteri, ci pare vi siano margini per contenere gli aumenti. La grande qualità della nostra produzione, e i nostri consumatori americani che amano la cucina italiana meritano un’attenzione speciale senza alzare alti lai pregando governo e Comunità Europea di venire in soccorso. Noi paghiamo questa guerra commerciale per colpe non nostre; per ora la tassazione è prevista per 4 mesi, poi si vedrà. Gli Stati sono più volubili delle persone.
In tale attesa, c’è chi ha risolto il problema. Eataly, a New York, è orgogliosa di mettere in vendita il salame di Varzi e il salame di Felino prodotti nello Utah e la finocchiona prodotta nel New Jersey. Complimenti!
Paolo Petroni
Presidente dell'Accademia