Cucina liquida di una società liquefatta
di Giovanni Ballarini
Presidente Onorario dell’Accademia
Cari Accademici, stiamo vivendo al tempo di una cucina liquida. Non una cucina di brodi, infusi e tisane o bevande le più varie, ovviamente, ma una cucina liquida in senso sociale e antropologico, secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Una cucina che non ha una forma, senza schemi o riferimenti stabili, che assume quella di una società in continuo e rapido mutamento, appunto come l’acqua che non ha una forma, ma che assume quelle del contenitore. Una cucina liquida, conseguenza della dissoluzione (anche questo un termine di tipo liquido) dei riferimenti e sostegni stabili tra loro coerenti che, nel corso di circa due secoli, la cucina borghese aveva creato, partendo da più antiche radici rinascimentali, usando prodotti nativi e ambientali, reinterpretando usi e costumi alimentari locali, e creando le tradizioni delle quali stiamo lamentando il tradimento o l’abbandono.
In questa cucina liquida si muove il sempre più diffuso spettacolo dei cuochi che si autoproclamano chef, navigando nel gran mare mediatico e per i quali ci si pone l’interrogativo - in gran parte retorico - se sia il grande cuoco che va in televisione o se il cuoco diventi grande solo quando va in televisione.
Nella cucina liquida nuota, a suo agio, l’industria alimentare mondiale, la quale non propone più cibi da cucinare, ma alimenti già preformati e di facile, multiforme e duttile adattamento agli stili di vita e di alimentazione di una società liquefatta, dove precedenti e lungamente elaborate tradizioni sono sostituite da continui ed effimeri cambiamenti.
Le tradizioni, che la cucina borghese moderna aveva sistematizzato e codificato, davano sicurezza e, soprattutto, permettevano di regolare i consumi alimentari. In una cucina liquefatta di una società liquida, senza tradizioni, sorgono e si diffondono paure alimentari e, principalmente, disturbi nutrizionali d’uso degli alimenti, dai quali origina la più grave epidemia alimentare umana che si sia mai presentata sulla faccia della Terra, quella del sovrappeso e dell’obesità.
In questi ultimi tempi, il comune sentire umano dei Paesi industrializzati, e che hanno dimenticato lo spettro della fame, non si è reso conto del grande sorpasso dell’abbondanza sulla carestia. La guerra tra fame e abbondanza è stata oggetto di medievali raffigurazioni di contrapposizione tra la Quaresima e il Carnevale, mentre oggi, purtroppo, non si ha presente che a circa un miliardo di persone sottonutrite si contrappongono due miliardi d’ipernutriti. Il cibo in eccesso, consumato dagli ipernutriti, non è soltanto un danno individuale e sociale, ma anche uno dei maggiori costituenti dello spreco alimentare, per molti aspetti superiore a quello delle perdite di produzione degli alimenti.
L’odierna necessità d’affrontare la Questione Alimentare, come realmente si presenta nei Paesi industrializzati dei quali l’Italia fa parte, coinvolge anche l’attività della nostra Accademia, soprattutto in due ben precise sfere.
Il primo ambito di ricerca è quello di conoscere sempre meglio quanto avvenga oggi, come si sia creata l’attuale situazione, partendo da un più vicino passato e approfondendo la conoscenza dei meccanismi, anche perversi, che hanno portato all’oggi.
Il secondo ambito riguarda in modo specifico le tradizioni, che la nostra Accademia ha lo scopo di tutelare, al tempo stesso promuovendone e favorendone il miglioramento, come ben definito dal nostro Statuto.
Due sono le dimensioni delle tradizioni, una “verticale” e l’altra “orizzontale”. Le tradizioni sono un’eredità che unisce una generazione all’altra, e al tempo stesso tengono unita una società, dando senso a un’identità, nella quale i riti e le regole alimentari sono fondamentali.
Come insegna la storia, anche le tradizioni nascono, muoiono ed evolvono, e compito della nostra Accademia è di contribuire a un loro miglioramento, in un cammino certamente non facile, tuttavia per questo stimolante, se non entusiasmante. Ma quale miglioramento?
Nei ristretti limiti di questa breve esposizione, e soprattutto rimarcando i danni culturali e sanitari dell’attuale cucina liquida, è necessario porre l’accento sulla necessità di tradizioni che siano anche buone “regole”, come avveniva nel passato. Non è certamente un caso che già l’antico e sempre attuale termine “gastronomia” significhi “regola dello stomaco” e cioè “regole alimentari”. Il più celebre trattato della gastronomia umanista, scritto nel 1465 da Bartolomeo Sacchi, il Platina, s’intitolava De honesta voluptate et valetudine inneggiando a un piacere e a una salute associati all’onestà, termine che non si collega all’onus, obbligo o peso, quanto all’honor o onore.
Non un peso, ma un onore delle regole, che devono dare piacere, gioia, godimento, diletto (voluptas) e al tempo stesso salute (valetudo) è il carattere che identifica le buone tradizioni che la nostra Accademia deve tutelare e promuovere, in Italia e all’estero, iniziando dal loro studio e conoscenza nell’attuale società senza schemi e riferimenti stabili, e sempre più soggetta a un ambiente culturale mediatico, immateriale e frammentario.